Dialogo tra una hacker e una contadina

di Cristina Carnevali, Germana Fratello, e Mimmo Perrotta

Il movimento hacker radicale e il movimento per l’agricoltura contadina hanno molti aspetti in comune; approfondire queste analogie può essere utile sia per comprendere meglio cosa vuol dire hacking, sia per immaginare quali tipi di strumenti gli hacker possono costruire per e con gli altri movimenti sociali. Ne abbiamo parlato con Cristina Carnevali, programmatrice e hacker, e Germana Fratello, contadina, a partire dall’esperienza di Campi Aperti, un’associazione di contadine/i e coproduttrici/tori che organizza otto mercati settimanali nella città di Bologna.

Logiche hacker e logiche contadine

Cristina: il termine hacker è connotato da una curiosità e attitudine al capire come funzionano le cose e metterci le mani dentro, riadattarle, riutilizzarle, aggiustarle purché vadano avanti. Io sono affezionata a questo utilizzo del termine, che forse viene dal mondo accademico: i primi programmatori avevano delle tecnologie che utilizzavano per lavoro e che poi riuscivano a riutilizzare per svago, divertimento o altri scopi, a volte anche potenziandole e cambiandole. La parola hacker viene associata molto spesso, in un immaginario mainstream, a scopi che possono essere dannosi verso alcuni sistemi. Però io rimango a quel significato di hacking, anche se effettivamente negli anni Settanta-Ottanta c’era un’ossessione sull’aprire sistemi, chiudere sistemi, quindi sull’infrangere dei confini, che però non è nient’altro che una parte del lavoro informatico: come un fabbro sa chiudere le porte e sa anche aprire le porte, e questo è innegabilmente e semplicemente parte del saper fare il suo mestiere.
Dagli anni Settanta il movimento hacker ha dato vita a una comunità internazionale, che si è formata su degli intenti politici, potendo comunicare a distanza, e si è radicalizzata sulla possibilità di riutilizzare quello che avevano scoperto gli altri, quindi sull’ottica anti-copyright e sul software libero. Il percorso politico di hackmeeting e del software libero sono tra le cose che mi hanno portato a Bologna, nel centro sociale XM24, dove ho conosciuto Campi Aperti e dove abbiamo cercato assieme di mettere la tecnologia al servizio dei nostri fini sociali. Noi usiamo la tecnica perché velocizza alcune azioni, pur rendendoci dipendenti da essa.
Tra il movimento hacker e quello contadino – ad esempio con la rete globale della Via Campesina e le rivendicazioni della sovranità alimentare – trovo dei punti di congiunzione, ovvero il tramandarsi conoscenze non chiuse, ma che siano disponibili nel tempo agli altri, e la curiosità di capire come si trasforma il presente. In entrambi gli ambienti – agricoltura e informatica – trovi delle entità macroscopiche, cannibali, onnivore, senza senso del limite, che tendono a centralizzare e a fagocitare sia il territorio che le interazioni nella rete. E sono un problema politico, perché sono modelli differenti di intendere il territorio, la politica: da un lato, chi cerca di arrivare a dei monopoli economici; dall’altro, il mantenersi federati in armonia con comunità che sanno di essere differenti, ma che si riconoscono l’una con l’altra nei principi.

Germana: il valore che tu dai alla comunità e al sapere condiviso è sicuramente un’analogia con il progetto delle reti contadine. Quando si comincia un progetto in agricoltura, ci si rende conto della debolezza rispetto alle grandi dinamiche legate alla produzione del cibo, alla gestione dei territori, eccetera. E ci si rende conto che quello che dà la possibilità di cambiare le cose, di fare quello che sembra più giusto fare, sia rispetto alla produzione del cibo sia rispetto alla gestione del territorio – produrre cibo sano, in armonia con la terra – è essere all’interno di una comunità che condivide il tuo stesso progetto. Un progetto contadino necessita di una condivisione ampia, di una rete, di contadini e coproduttori. Poi c’è la questione dell’autogestione: nel tuo progetto hai bisogno di prendere decisioni in rete con una comunità di riferimento, mentre le decisioni che ti vengono imposte dall’alto per forza ti portano lontano. Noi diciamo sempre che i nostri mercati non sono basati sulla concorrenza ma sulla collaborazione, non per una questione di generosità ma proprio di consapevolezza che quella è la tua unica forza, la tua possibilità di andare avanti.
Certo, rispetto invece alle connessioni alla velocità della luce del mondo hacker, le pratiche dei contadini e con i coproduttori sono molto locali; quello che si è connesso però sono le idee, perché comunque anche sul piano contadino molti stimoli sono arrivati dal sapere quello che succedeva nelle altre parti del mondo, ad esempio con La Via Campesina. Ma le comunità che noi costruiamo sono molto locali.
Non è un caso che ci siamo incrociate a Xm24: quel luogo aveva delle caratteristiche particolari, era un luogo dove i poteri erano, per quanto possibile, tenuti ai margini e dove le persone potevano inventare cose diverse, avendo a disposizione uno spazio. A Xm24 sono avvenuti tanti incroci. Non era casuale che noi contadini non avessimo un posto dove fare un mercato autogestito a Bologna e l’abbiamo trovato lì. Eravamo stati a Genova, 2001: in quel periodo c’è stata forse la maggior consapevolezza che i poteri forti si stessero compattando a livello mondiale e quindi che le persone che avevano un’idea di alternativa si dovevano creare le loro reti. Forse è successa una cosa analoga anche nell’informatica.

Cristina: sì, in quegli anni è successo in modo simile con Indymedia, nel campo della comunicazione e dell’informazione.
È importante sottolineare che anche la programmatrice, l’informatico, non riescono a mancare della relazione fisica con altre persone simili. Negli hacklab, coloro che sul territorio hanno delle specializzazioni possono vedersi e scambiarsele, c’è una volontà di condividere e di supportare a vicenda progetti: scrivere software è difficile, mantenerlo è difficile, farlo tenere in piedi da dei computer e darlo a degli utenti è lavoro, e quindi per mettere in piedi un’infrastruttura tecnologica è necessario molto sforzo. Sai che non lo puoi fare da solo, anche se l’informatica facilmente ti inganna, dandoti l’illusoria potenza di poter prendere un software che magicamente funziona. In realtà è molto oneroso e se non sei un gruppo – oppure un’azienda – non riesci a fare una cosa del genere. È anche di un aspetto umano: dopo aver passato otto ore davanti a un computer ti vuoi vedere, confrontare, scambiare e creare. È impagabile consultare un altro umano rispetto a leggere un manuale. Certo, serve molta attenzione, che sia tutto documentato e tramandabile, però è molto più rapido se un’altra persona ti istruisce sugli errori possibili. Io trovo anche delle analogie, ad esempio, tra l’organizzazione degli incontri di Hackmeeting e quelli di Genuino Clandestino, come reti.

Rispondere alle necessità delle comunità

Cristina: Questo modo di costruire le tecnologie informatiche può contribuire ad affrontare tutte le necessità che sorgono. Prima ancora di essere online, nell’offline hai necessità di scrivere documenti, modificare immagini, usare uno scanner e così via. E qui hai tutto quello che è stato riscritto, in software libero, per Linux e sulle migliaia di distribuzioni che ci sono di Linux. Quello sforzo, che ci dà la possibilità di usare un computer, a noi arriva gratuito, ma è uno sforzo di milioni di ore di lavoro, di persone che hanno deciso di donarlo a una comunità mondiale, a tutti gli esseri umani. Poi ci sono i servizi connessi in rete: hai bisogno di scambiarti i file e ci sono servizi di scambio file in software libero; ancora prima sono nati i vari server autogestiti con istanze politiche di autogestione molto forti – ad esempio autistici.org, sindominio.net nella zona iberica, Ccc in Germania – insomma, tutti gruppi di informatici-politici che danno servizi di mail come necessità autogestita, fino ad arrivare ai social network federati, come Mastodon, per le necessità di comunicazione spiccia, o ancora fogli di calcolo o documenti da condividere o editare collaborativamente, videochiamate.
Ci sono vari motivi per cui utilizzare questi strumenti costruiti in maniera collaborativa invece che i software proprietari. In primo luogo, perché è giusto avere una scelta, mentre se rimani ad esempio all’interno di Windows, difficilmente uscirai da quell’unica soluzione che c’è già e che quell’azienda ha scelto per te (lock-in). Nell’informatica è molto facile costruire feudi: a livello commerciale Windows e Apple hanno costruito feudi, entità chiuse, per cui è difficile esportare i dati da lì, quindi hanno un controllo su di te. È una conseguenza dell’utilizzo di un loro software. In secondo luogo, perchè il software libero ti permette di modificarlo e di estenderlo: è un lavoro collaborativo, un sistema operativo su cui tutti quelli che sapevano scrivere codice potevano aggiungerci un pezzettino e quindi soddisfare necessità. Una terza ragione è economica e sta nel fatto stesso che ti vendano Windows: il costo di quel sistema operativo sta nel fatto che è stato scritto, mentre il duplicarlo e il distribuirlo alle persone non costerebbe niente. Windows, e anche Apple, a livello di software ti vendono dei beni immateriali come se fossero materiali. Nell’informatica, se io condivido delle idee, queste mi vanno ad arricchire, si moltiplicano. Invece, se io ho una mela e ti do una mela, io non ce l’ho più e tu ne hai una in più. Ma se io ho un’idea e ti do un’idea è un’aggiunta. Questa è la potenza del discorso collaborativo: la fatica di scrivere codice la puoi condividere tra tante e poi la distribuzione è a poco costo.
L’altra ragione importante è la solidarietà: una risorsa che è di proprietà di qualcuno può esserti negata (compresi i tuoi dati); una risorsa creata e custodita collettivamente no.

Germana: c’è una differenza molto simile tra un mercato contadino autogestito e il “normale” mercato dei prodotti alimentari. Noi all’inizio vendevamo i nostri prodotti (anche se biologici) al mercato all’ingrosso. Ci dicevano come volevano i prodotti e noi potevamo solo cercare di adeguarci; al di là di quali fossero i nostri costi di produzione, loro ci dicevano “quest’anno questo prodotto lo paghiamo tot”. Fine. Costruire dei mercati autogestiti ha significato passare da una serie di realtà agricole che dovevano cercare di adeguarsi a degli interessi altrui, ad aziende agricole che cercano insieme ai coproduttori un modo per portare avanti un progetto che sia di utilità per tutti. Inoltre, hai altri produttori che ti dicono come fare, con cui scambi competenze. Il mercato, la rete di distribuzione, i regolamenti ce li creiamo secondo le nostre esigenze: è come se, come dice Cristina, ci facessimo il programma secondo le nostre esigenze. Le esigenze di tutta la comunità, di chi vive lì, di chi vuole mangiare quei prodotti e di chi li vuole coltivare. Abbiamo creato un mercato che è a misura del progetto di quella comunità, e abbiamo smesso di utilizzare qualcosa che ci portava per forza in una certa direzione.

Cristina: allo stesso modo, nell’informatica c’è questo modello: Windows e Apple fondano il loro business e il loro reddito su “il software è mio e decido io” – che è la stessa cosa di “i semi sono miei e decido io”, come alcune gigantesche aziende cercano di fare in agricoltura – mentre le piccole applicazioni informatiche collaborative di cui parlavo prima sono al servizio delle persone sul territorio: il software non è più il gioiello di qualcuno, ma la conoscenza viene condivisa, sia a livello di donazione, sia a livello di piccole aziende che possono offrire servizi per un piccolo reddito, basato sul loro lavoro, sul tempo che è usato per prendersi cura di un’infrastruttura o di un territorio. Nel caso dell’informatica, se tu tieni dei servizi – il cloud, le videochiamate, la posta, i fogli di calcolo delle persone – vieni pagato per il lavoro che ci metti in manutenzione e non per il software che hai prodotto. Il software è qualcosa in più, che in questa logica può espandersi a seconda di ogni necessità, perchè ognuno è diverso. È un risvolto pratico, ma anche una lotta politica.

Germana: la questione dei semi da questo punto di vista è importante, anche se molto complessa: negli ultimi 50-70 anni sono state fatte norme che hanno fatto sì che la produzione dei semi non sia più in mano a contadine e contadini e ci siamo ritrovati con una riduzione di biodiversità di proporzioni catastrofiche. È stata vietata agli agricoltori la vendita di prodotti coltivati a partire da semente di un altro agricoltore, imponendo una dipendenza dalle ditte sementiere. Ma la diversità delle sementi si è basata per millenni proprio sullo scambio. I semi non si sono evoluti da soli, li hanno evoluti contadine e contadini. In natura esiste il pomodoro selvatico, ma tutto il resto l’hanno fatto contadine e contadini e l’hanno fatto attraverso lo scambio. Contadine e contadini non erano proprietari dei semi: io avevo questo mucchietto di semi, ci seminavo i miei pomodori, ti vendevo un pomodoro e tu dentro trovavi i semi. Ha sempre funzionato così, i semi erano proprietà collettive, diffuse, mentre oggi sono diventati proprietà privata di aziende, cosa che ha comportato quindi perdita di biodiversità e perdita di autonomia. L’altro problema è che le persone in questi decenni hanno perduto la capacità di riprodurre i semi; dalle aziende arrivano semi ibridi, che funzionano bene, anche meglio di quelli auto-riprodotti, e via via le persone hanno perso questa capacità. Con Campi Aperti stiamo lavorando a una “casa delle sementi” non solo per recuperare i semi, ma anche per recuperare le competenze.

Cristina: nell’informatica avviene una dinamica simile, se quello di programmare collaborativamente non è un sapere che abbiamo perso, è un sapere che dobbiamo ancora affinare. Anche nell’informatica le corporation private hanno preso dei pezzi di software libero e li hanno usati o li hanno fatti diventare proprietà privata. È successo ad esempio con Apple e Bsd (Berkeley Software Distribution), prima che il mondo Gnu/Linux affinasse le tecniche e inserisse nelle licenze il fatto che il software puoi usarlo ma deve continuare a essere libero e distribuibile. Poi ci sono i due aspetti, quello generativo e quello di affinamento. A volte il software libero è più difficile da usare rispetto a quello proprietario e ci sono software che sviluppiamo da zero perché sono necessità che nessuna azienda ha sviluppato e introdotto sul mercato, ma invece alle tue comunità sono necessari. Per esempio Openki, una piattaforma di educazione libertaria. Però quello che scriviamo noi da zero a volte ha intoppi, le piattaforme collaborative sono sempre in fase di affinamento. L’arte da imparare è la progettazione collaborativa tra dev e user. Diversamente, le piattaforme commerciali fondano tutto sul fine secondario del profitto dai dati, quindi quello che ci offrono è finalizzato all’obiettivo di farcelo usare e essere pervasivi nell’Internet o nei nostri pc, nell’ambiente che hanno colonizzato e che stanno colonizzando.

Strumenti hacker per i movimenti sociali

Cristina: da anni supporto Campi Aperti con vari strumenti. Prima per il sito Internet, che ha risposto ai primi bisogni comunicativi. Poi, quando Campi Aperti ha superato le cento e passa aziende agricole, abbiamo dovuto automatizzare le schede delle unità produttive, la presenza di queste schede sul sito, eccetera. In seguito, ho lavorato a una facilitazione sulla gestione dei documenti, anche in base al fatto che le due persone che fanno lavoro d’ufficio per Campi Aperti sono dislocate nel territorio e quindi si utilizza un cloud e file-sharing gestito da noi, i cui dati sono nel posto in cui desideriamo noi, sia in locale, sia online in collaborazione con Tetaneutral, un gruppo francese che lavora anche con le Amap (cioè i gruppi di sostegno all’agricoltura contadina) francesi. Durante il lockdown ci siamo trovati a dover costruire e gestire una vendita online: un’epopea che abbiamo affrontato e poi dismesso perché non è quello che ci interessava, in quanto pensiamo che la relazione dello scambio nei mercati in piazza sia preferibile.
E poi stiamo facendo un esperimento che stupisce. In varie realtà in Italia e in Sudamerica, una necessità peculiare di piccole comunità è quella di procurarsi una rete internet: un po’ di “telecomunicazioni dal basso”. Quando vai a vivere in campagna per iniziare una produzione contadina, gli insediamenti sono sparsi sul territorio e la comunicazione a distanza è importantissima, ma sei in una zona dove spesso non hai fornitura di connessione a internet. Quindi sei svantaggiato anche da quel punto di vista. È il digital divide. Ma se hai delle persone informatiche con certe idee, ti trovi a farti una linea fai da te.

Germana: il problema è che le connessioni non coprono tutto il territorio, allora Cristina ha connesso via radio una serie di case, con antennine sui tetti che rimbalzano il segnale. Ha messo in rete una trentina di abitazioni, per una cinquantina di persone, su quattro valli.

Cristina: per il software che utilizziamo sulle antenne attingo a piene mani a una comunità internazionale. Ci sono decine di informatici che hanno fatto questa cosa, che si sono trovati in un entroterra nella selva del Brasile, in mezzo all’Argentina, tra i canneti del Messico. E si sono scritti del software, hanno studiato un modo per risolvere questo problema a una comunità solidale, che applichiamo anche noi. Ci sono riunioni internazionali sulla gestione di questo progetto (https://libremesh.org) e su come possiamo continuare a esistere. Questo software è sviluppato da una comunità internazionale non commerciale, perché nessuno, a livello commerciale, aveva interesse a farlo con quel design.
Il nostro obiettivo successivo è diventare noi stessi Internet Service Provider. Le compagnie telefoniche hanno un grosso ruolo di decisione sulla trasformazione del territorio – sulla disposizione di antenne, sul tipo di tecnologia e di topologia della rete – ma anche di censura. La nostra fonte per il momento sono ancora enti “tradizionali” di comunicazione, però abbiamo una infrastruttura autogestita, in multiproprietà; se diventassimo Internet Service Provider avremmo la connessione diretta alla dorsale. Questi progetti sono spesso derisi dicendo “vabbe’ ma tanto siete hobbisti”. Lo diceva anche Bill Gates di Linux (e lo dicono le multinazionali ai contadini), poi oggi hai il 77% dei server internet, il 100% dei supercomputer e il 70% degli smarphone con un sistema operativo basato su Linux, quindi Gates è stato smentito. È vero, la nostra tecnologia è fatta anche nel tempo libero. Però è robusta, perché è documentata, ha una proprietà e una manutenzione diffuse e una costituzione modulare.

Nessuno è indispensabile

Cristina: una cosa su cui stiamo lavorando da anni è che il tecnico informatico non deve diventare indispensabile, non deve essere il “singolo punto di fallimento”. Questo è un termine informatico: se hai un punto centralizzato, crei una fragilità per tutti, se un sistema può avere un singolo punto in cui determini il fallimento di una strategia, è sicuramente debole. Su questo dobbiamo lavorare a livello culturale. La necessaria specializzazione ci obbliga a fare una grosso sforzo di accessibilità. Ci sforziamo di fare ad esempio degli incontri stagionali per la manutenzione e l’aggiornamento del software che usiamo per il sito e per il cloud. Questa manutenzione è indispensabile per la stabilità e la sicurezza del software me è ovviamente molto delicata. Per questo è necessario sempre documentare quello che si fa, avere delle piattaforme di testing che consentano a chi sta imparando di provare senza paura di sbagliare. Sono tutte attenzioni che non è facile avere, perché tutto l’ambiente di produzione del software invece prende gente uscita dalle università, iperspecializzata e già orientata all’offerta commerciale e questo ricade sulla cultura del software libero, che comunque è molto maschile e piuttosto competitiva.
Ora, questa manutenzione è chiaramente una cosa di servizio, uno sbattimento, un lavoro riproduttivo, ma che ci tocca tutti. La cosa bella è che ci sono oggi tre o quattro persone che lo sanno fare in autonomia.

È importante ricordare che se inizi a usare questi strumenti, essi creano dipendenza. Una consapevolezza e un saper fare diffusi sono necessari, altrimenti non sai dove questi strumenti ti stanno portando.


Questo articolo è apparso originariamente sulla rivista Gli Asini in data 1 Maggio 2022, ed è stato un contributo importante per moltə di noi, ispirando in buona parte anche il processo che ha portato ad iniziare una collaborazione più organizzata fra i mondi hacker e contadini, come ad esempio tentiamo di fare in questo blog.