Intervista di François Jarrige a Fabrice Clerc
Questo articolo è uscito sulla Rivista Malamente #27 di dicembre 2022 (QUI IL PDF)
Ringraziamo la redazione di Malamente per averci accordato di ri-pubblicare questa intervista.
Tra le numerose iniziative che fioriscono oggi attorno al low-tech (“tecnologia a bassa intensità”), la cooperativa Atelier Paysan rappresenta un’esperienza particolarmente ricca e interessante. Mentre l’agricoltura industriale ha bisogno di grandi macchinari tecnologici per sostenere il suo modello di sviluppo (fatto di monocolture, veleni e distruzione dell’ambiente), i progetti e le realizzazioni dell’Atelier Paysan uniscono una logica di mutuo appoggio alla riflessione critica sulle tecniche e sul lavoro contadino, nel quadro di un ambizioso progetto politico il cui fine ultimo è riportare l’agricoltura a una dimensione ecologica e umana. La tecnologia necessaria alla produzione di attrezzature e macchinari, efficienti ma low-tech, viene considerata un bene comune, alla portata del saper fare contadino e delle sue reti sociali, per sollevare chi lavora sulla terra dalle fatiche quotidiane senza però pregiudicarne l’autonomia. L’intervista di François Jarrige a Fabrice Clerc, cofondatore dell’Atelier Paysan (che però da qualche anno è uscito dal direttivo dell’Associazione), è stata pubblicata sulla rivista “La Pensée écologique” (n. 5, 2020): ne diamo qui una traduzione in versione ridotta. Tutti i progetti tecnici dell’Atelier Paysan sono disponibili sul sito www.latelierpaysan.org: vi invitiamo a farne buon uso!
Ci racconti le origini dell’Atelier Paysan e quali sono state le ragioni che vi hanno spinto a creare questa cooperativa di auto-costruzione di attrezzi agricoli?
Quando sono arrivato a Grenoble, nel 2007, ero un ingegnere agricolo e lavoravo nel supporto all’insediamento degli agricoltori per l’associazione ADABio, che si occupava di sviluppo dell’agricoltura biologica e delle relative tecniche. Dall’incontro con Joseph Templier, orticoltore, ha preso via il tutto. Joseph gestiva con altri associati una fattoria biologica esemplare, con un sistema di produzione molto efficace ed efficiente, ed è anche un formidabile tuttofare contadino, che grazie a sperimentazioni collettive alle quali ha partecipato è riuscito a disegnare e costruire numerosi attrezzi adattati alle sue esigenze.
Già una quindicina di anni fa, mentre l’agricoltura convenzionale si veniva a trovare sempre più dipendente da costosi e pesanti macchinari high-tech promossi dagli industriali e dallo Stato, la questione degli attrezzi e delle tecniche agricole suscitava un certo dibattito negli ambienti dell’agricoltura biologica. L’ADABio riteneva questa discussione fondamentale per promuovere una vera agro-ecologia, nutrita di scambi ed elaborazioni tra pari. Anche perché molti orticoltori si rendevano conto che i macchinari e le tecniche a loro disposizione stavano esaurendo il terreno e mettendo a rischio la sostenibilità del loro sistema di produzione. Per questo, mentre immaginavano un nuovo modello agronomico, si ponevano il problema di come realizzarlo tecnicamente.
Membro attivo di questo gruppo, Joseph Templier ha cominciato a studiare degli attrezzi a bassa tecnologia adatti ai bisogni specifici degli orticoltori e nel 2000-2001 sono nati tre strumenti emblematici: la Butteuse, la Cultibutte e la Vibroplanche. Joseph e i suoi soci ricevevano un certo numero di visite, molte persone passavano da loro per formarsi tecnicamente, ma erano impossibilitati a rispondere alla domanda di riproduzione di queste macchine e dei connessi saper fare, che esistevano solo nella loro fattoria. Si pose così, ben presto, il problema di diffondere all’esterno queste attrezzature e questi metodi di lavoro del suolo e, più generale, di tutto il sistema culturale che c’era dietro. Uno dei punti in comune che mi legava a Joseph era proprio questo: trasmettere le conoscenze e il saper fare contadino nel quadro di un’azione collettiva. La sfida principale era come poter liberare queste conoscenze evitando che venissero fatte proprie e monopolizzate da pochi grandi produttori. E non bastava una semplice descrizione di questi macchinari realizzati con materiali riciclati, ma bisognava in parte riprogettarli affinché fossero diffondibili e riproducibili in altre aziende agricole e appropriabili dal maggior numero di agricoltori, attraverso l’autocostruzione.
Nel 2011-2012 abbiamo organizzato un primo corso di formazione, che è stato l’embrione dell’Atelier Paysan, nato nel 2014 in forma di Società cooperativa di interesse collettivo. Il primo anno abbiamo organizzato venti corsi di formazione in tutta la Francia, poi le cose hanno subito un’accelerazione: oggi ci sono una ventina di dipendenti fissi, affiancati da altrettanti contadini-formatori occasionali, tutti insieme contribuiscono quotidianamente a far emergere il nostro progetto politico. Ora facciamo oltre settanta corsi di formazione all’anno. Per il futuro stiamo lavorando a corsi di lunga durata (di qualche settimana) e a corsi di diploma (da un anno). Abbiamo sperimentato più di un migliaio di tecnologie agricole e sul nostro sito si trovano circa un centinaio di tutorial di autocostruzione.
Ci puoi definire cosa intendete per low-tech o “bassa tecnologia”?
L’espressione low-tech, che viene abitualmente utilizzata dalla nostra cooperativa, ha conosciuto un certo successo negli ultimi anni. Fa parte di un immaginario comune nell’ambiente degli autocostruttori. Eppure, parlare di “tecnologia contadina” sarebbe probabilmente un’espressione più pertinente e appropriata, sebbene l’uso del termine “tecnologia”, ai fini della presentazione del nostro approccio, non è del tutto soddisfacente.
Parlare di tecnologie contadine ci avvicina all’approccio delle “sementi contadine”: come i semi, anche le tecnologie sono legate a delle comunità, sono macchine viventi costruite a partire dai feedback del terreno. La Cultibutte, ad esempio, si evolve di continuo, ne sono già state elaborate 7 o 8 versioni, in base a quello che ha detto l’esperienza sul campo. Quando gli agricoltori lasciano i nostri corsi di formazione, spesso hanno in mano solo delle proto-macchine, che necessitano di molti adattamenti in base alle specifiche condizioni locali del suolo e del clima ma anche, e questo è essenziale, in base al progetto culturale dell’agricoltore o del gruppo di agricoltori che sono venuti a fare formazione. Sono quindi tecnologie in costante evoluzione e discussione, al pari delle sementi contadine che hanno bisogno di essere rinnovate e scambiate. Di solito la cosa funziona, anche perché i nostri apprendisti hanno potuto costruire la loro propria macchina durante il corso di formazione e quindi sapranno come regolarla, ripararla, modificarla, confrontandosi con i loro pari, il tutto all’interno di un approccio necessariamente collettivo.
Per quanto riguarda il low-tech, o qualunque sia il termine usato per descrivere il nostro approccio ai macchinari agricoli (poco distruttivo, incredibilmente tecnico ed efficace), possiamo tentare di elaborare una serie di criteri che distinguono le “tecnologie contadine” da altri sistemi tecnologici industriali.
– Un primo criterio potrebbe essere la partecipazione dell’utilizzatore o del gruppo di utilizzatori nello sviluppo, nella manutenzione e nel costante miglioramento dello strumento. L’obiettivo è quello di riappropriarsi di conoscenze e competenze tecniche, contro la logica dominante dell’espropriazione, e di arricchire il lavoro degli agricoltori, contro la logica della proletarizzazione e dell’iperspecializzazione. Si tratta di riprendere il controllo e di riconquistare la complessità delle interazioni socio-ecologiche, sviluppando attrezzature che fanno parte di una complessa alchimia tra suolo, piante, animali e lavoro umano.
– Un secondo criterio potrebbe essere la necessità di partire dalle reali esigenze degli agricoltori. Bisogna infatti partire dai bisogni concreti, così come si esprimono nei campi, invece di adottare le idee di ingegneri esterni, calate dall’alto, normative. Ecco perché le conoscenze degli agricoltori devono essere al centro del processo.
Il low-tech implica anche che gli agricoltori abbiano un minimo di formazione tecnica: come si costruisce un ingranaggio, come si realizza una rete metallica a partire da una lamina, come si salda ecc… sono competenze importanti. La bassa tecnologia e la sovranità (o autonomia) tecnologica degli agricoltori sono un disegno semplice ma che richiede competenze raffinate. Più gli ecosistemi coltivati sono monocolture su larga scala, tanto più complesse e disumanizzate diventano le tecnologie necessarie; al contrario, più i sistemi agricoli sono diversificati, più le macchine sono semplici, ma hanno bisogno di un buon saper fare e di sensibilità… ci vogliono cervelli, non server!
All’intensità di capitali va sostituita l’intensità delle conoscenze. Staccarsi dal pensiero tecnicista di stampo industriale vuol dire riarmare l’autonomia contadina e i suoi saperi complessi, vivi e collettivi. Gli strumenti agricoli ad alta tecnologia intensificano invece le logiche di standardizzazione e le cosiddette filiere di produzione integrata, ad alta concentrazione di capitali, ne sono la quintessenza: il lavoro agricolo diventa un flusso al servizio dell’industria che fornisce i mezzi di produzione e recupera la materia prima, con un approccio estrattivista, imponendo le sue condizioni.
– Un terzo criterio è la riproducibilità (in realtà mai totale) e la versatilità. Il requisito della riproducibilità implica metodi di costruzione semplificati: una saldatrice ad arco, una smerigliatrice per il taglio e un trapano a colonna sono tre strumenti fondamentali per l’autonomia tecnologica dell’azienda agricola. La questione della versatilità è altrettanto importante per macchine che vanno adattate a diverse condizioni pedoclimatiche.
Esiste anche una versatilità indiretta, grazie ai bassi costi di produzione delle nostre attrezzature. Una piantatrice per lattuga da 25.000 euro richiede infatti l’impianto di una monocoltura di lattuga per diversi anni, mentre con la stessa somma di denaro si può investire in diversi strumenti… o in risorse umane. E ci si lascia la possibilità di cambiare idea. L’iper-meccanizzazione impone la monocoltura per ammortizzare l’investimento e riduce il lavoro agricolo a una serie di gesti robotici disumanizzati. Con il low-tech si riduce il massiccio indebitamento degli agricoltori, permettendo al contempo di avere più strumenti a disposizione e quindi una maggiore capacità di adattamento, godendo inoltre della preziosa biodiversità delle colture.
– Un quarto criterio potrebbe essere quello di fare le cose insieme. Il nostro modello di formazione consiste nel riunire per diversi giorni in una fattoria agricoltori e agricoltrici che non si conoscono necessariamente tra loro. Questo serve anche a rompere un certo isolamento, che a volte diventa prevalente, se non addirittura tragico. Ogni stagista lavora anche sui pezzi degli altri, perché quello che proponiamo è un approccio basato sul mutuo aiuto e sul rispetto delle reciproche competenze. I partecipanti ci dicono spesso quanto si godano questi momenti di vita, queste piccole avventure umane che spezzano le giornate di solitudine su un trattore, o davanti a uno schermo.
– Un quinto criterio riguarda la questione dei beni comuni: questi strumenti e i loro progetti devono essere diffusi con una licenza di libero utilizzo, in modo da poter circolare ed essere condivisi il più possibile. I beni comuni sollevano poi la questione del lavoro contadino, del suo status e della sua utilità sociale. L’investimento pubblico in agricoltura è oggi concepito come un acceleratore di crescita per le industrie a monte e a valle, e non per il settore agricolo, la cui capacità di produrre valore aggiunto è stata annientata, mentre la manodopera agricola è inesorabilmente soppressa, degradata o proletarizzata. Le macchine dovrebbero essere rimesse al loro posto, al servizio dei contadini, e non viceversa.
L’obiettivo, in definitiva è quello di recuperare un certo senso dei limiti tecnici, che vanno collettivamente e democraticamente fissati. Anche se questo si scontra frontalmente con l’ideologia dominante, per la quale ogni innovazione tecnologica è un progresso sociale, senza limiti. In questo senso, dovremmo porci il problema di “fermare il progresso” che distrugge le comunità umane.
Infine, c’è l’aspetto relativo al valore aggiunto di questi strumenti a bassa tecnologia, sia per le aziende agricole che per i laboratori di trasformazione. Che si tratti del contadino-panettiere o dell’allevatore, per esempio, tali strumenti dovrebbero consentire di reinstallare le lavorazioni all’interno dell’azienda, appunto per recuperare valore aggiunto. Bisogna andare nella direzione della de-concentrazione, invertire il grande furto di valore operato dall’agricoltura industriale e dai suoi circuiti di trasformazione e commercializzazione. La tecnologia industriale è l’arma di questo furto, un vero e proprio cappio al collo.
Credi possibile, oggi, generalizzare questo modello? E quindi andare controcorrente rispetto alla situazione che sembra dominare le campagne?
Per prevedere un’espansione o addirittura una generalizzazione di questa tecnologia a bassa intensità occorre uscire dall’individualismo in cui, oggi, sono spesso intrappolati gli agricoltori, reduci come tutta la società da quarant’anni di discorso liberale. Perché non si tratta di soluzioni individuali. Prima di tutto dobbiamo far rinascere delle comunità e sostenere l’insediamento di giovani agricoltori. In Francia avremmo bisogno di un numero di agricoltori quattro o cinque volte superiore a quello attuale; oggi sono poco più di 400.000, con tendenza a diminuire. È vero che esiste la dinamica del ritorno alla terra, ma è insufficiente rispetto agli sviluppi demografici globali, basti pensare all’alto numero di pensionamenti tra i contadini anziani.
Comunque la tecnologia non è l’obiettivo principale, ma è un elemento di un progetto sociale più ampio. L’uso di strumenti a bassa tecnologia implica la rottura dell’isolamento contadino, per collegare quel mondo ad altre comunità: tecnici, artigiani, cittadini. Dietro il low-tech agricolo c’è un modello di società da promuovere, un nuovo modo di vivere, una società basata su tecnici locali, su laboratori di artigianato e di trasformazione su piccola scala (quelli che nell’ultimo secolo sono stati spazzati via). I fabbri di paese e le capacità produttive locali dovrebbero essere sostenuti e privilegiati rispetto alla sempre maggiore centralizzazione da parte di gruppi industriali sempre più grandi. La nuova fase di robotizzazione a cui stiamo assistendo oggi è l’ultimo stadio dell’etnocidio della civiltà contadina sull’altare dei profitti e della finanza globale.
Il progetto Atelier Paysan fa parte di una galassia più grande. È pienamente in linea con i migliori movimenti dell’ecologia politica e si nutre di diverse tradizioni di pensiero. Autori come François Partant, Jacques Ellul e Ivan Illich hanno stimolato la riflessione sull’evoluzione del mondo contadino dal punto di vista tecnologico. L’Atelier Paysan si sente parte di questa tradizione politica.
Ci descrivi quali sono i terreni di intervento della vostra cooperativa?
Il fulcro della nostra attività rimane la diffusione del saper fare tecnico che avviene con i corsi di formazione per l’autocostruzione delle attrezzature, ma anche attraverso una rete nazionale che si occupa appunto della questione degli strumenti agricoli. L’Atelier Paysan è riconosciuto ufficialmente come ente formatore, quindi i costi dei corsi sono in genere coperti dai fondi destinati alla formazione degli agricoltori. Stiamo anche sviluppando un’attività di acquisto di gruppo di materiali e accessori, per rendere l’autocostruzione accessibile a tutti, in particolare ai giovani agricoltori che stanno appena cominciando.
Le azioni della cooperativa comunque sono molteplici e il lavoro è orientato in diverse direzioni. Svolgiamo ad esempio indagini sul campo per valorizzare – sempre in open source – le innovazioni degli agricoltori, sviluppiamo strumenti partecipativi adatti alle esigenze locali e pubblichiamo anche una serie di opuscoli – che abbiamo chiamato “Piccola biblioteca contadina. Diffondiamo i beni comuni” – per divulgare le “tecnologie appropriate” sia per la costruzione di edifici agricoli, che per le attività di trasformazione come panetterie, mulini, birrerie, caseifici, ecc.
Infine, dall’anno scorso, abbiamo impegnato risorse per fornire una formazione “politica” agli agricoltori e per coinvolgere i cittadini. La sfida è duplice: da una parte incoraggiare l’organizzazione collettiva locale, dall’altra sottolineare che un cambiamento su larga scala non avverrà mai semplicemente espandendo le nostre attività. I problemi sociali ed economici sono strutturali; il locale è soggetto a vincoli globali. In nessun caso vogliamo suggerire che la trasformazione sociale avverrà solo attraverso la capillarità della nostra simpatica alternativa. Noi rimaniamo perfettamente innocui per il capitalismo agrario, lo sappiamo, anche se non ci piace. Sappiamo che né i cittadini né gli agricoltori, da soli, potranno vincere la battaglia, i primi con la sola forza dei loro carrelli della spesa e gli altri con le loro pratiche agronomiche. Non si potrà evitare di affrontare insieme la questione, iniziando con il rifiutare fermamente i progetti dell’agroindustria: la massificazione della robotica, il gigantismo delle macchine, le biotecnologie. Si tratta di un progetto a lungo termine, ma dobbiamo iniziare a muoverci in questa direzione.
Si può fare una valutazione dell’attuale ampiezza del movimento per l’autonomia tecnologica? È ancora marginale o osservate dei segnali incoraggianti?
È difficile valutare la portata del movimento agricolo low-tech, che prende forme anche molto diverse, però, in generale, si può dire che rimanga marginale. D’altra parte l’autocostruzione è un modo per ottenere tecnologie e il nostro obiettivo è riportare queste capacità tra la popolazione agricola, ma non è possibile immaginare la generalizzazione della sola logica del fai-da-te. Devo però dire che oggi sentiamo un’enorme richiesta sociale, un grande desiderio da parte di molti giovani ingegneri agrari che si interrogano sul futuro dell’agricoltura convenzionale. E il mercato globalizzato sta mostrando sempre più i suoi limiti. Dovremmo però uscire dai margini di alternative che sono certamente interessanti ma ancora largamente insufficienti e tornare a porre la questione di base: quella dei rapporti di forza nella società. Ecco, questa consapevolezza sta tornando e questo è incoraggiante.
Quali sono i vostri progetti per il futuro?
Progetti e desideri sono numerosi. In generale, la cooperativa si trova a un bivio, perché è cresciuta tanto da trovarsi ad affrontare la questione dell’istituzionalizzazione delle nostre azioni, con il rischio di essere assorbiti da logiche che ci oltrepassano. Su questo restiamo cauti e prudenti. La cooperativa ha comunque sufficiente immaginazione e forza per promuovere i propri progetti senza farsi recuperare dal sistema.
In definitiva, quello a cui miriamo a lungo termine è trasformare radicalmente la produzione agricola, non solo per una minoranza contadina confinata a mercati di nicchia. Vogliamo continuare a promuovere tecnologie di basso impatto, al servizio dell’emancipazione del mondo contadino, allo scopo di vedere emergere un altro modello di agricoltura, un modello connesso al vivente e alla sua ricchezza, al sensibile, all’umanità.